Citazione della settimana

CITAZIONE DELLA SETTIMANA

"...una volta che sai cos'è la cosa che vuoi che sia vera, l'istinto è un mezzo molto utile per metterti nelle condizioni di sapere che è vera."

(da Douglas Adams, Addio, e grazie per tutto il pesce; Milano, Mondadori, 1986)

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lunedì 28 novembre 2011

Attila Jòzsef: biografia e opere


Poeta ungherese
 Budapest, 11 aprile 1905  -  Balatonszárszó, 3 dicembre 1937

 Nato a Budapest l'11 aprile 1905 da famiglia povera, visse un'infanzia caratterizzata dalla miseria, da lavori umili e malpagati, dall'assenza del padre e dalla malattia della madre, morta prematuramente nel 1919. Nonostante questo, anche grazie all'aiuto del cognato, portò a termine con successo gli studi e frequentò l'università di Seghedino, dalla quale fu allontanato a causa di una poesia. In seguito studiò anche a Vienna e a Parigi, e infine nella sua città natale, senza però completare gli studi, per contrasti col mondo accademico del tempo.
 Scrisse la prima poesia di cui si abbia conoscenza all'età di 11 anni e pubblicò la sua prima raccolta a 17, nel 1922, dopo aver conosciuto ed aver ricevuto l'appoggio e la stima del grande poeta ungherese Giulio Juhász. Gli argomenti delle sue poesie riflettono le vicende della sua vita: la povertà e il lavoro, l'impegno politico, il misticismo religioso e i vari amori, tra i quali furono determinanti quello felice per Marta Vágô, interrotto per volere della ricca famiglia della ragazza, e quello non corrisposto per l'amica Flóra Kozmutra, che risale agli ultimi mesi della sua vita. Jòzsef frequentò circoli letterari, fu pubblicato sulle riviste più importanti del suo paese, venne ammirato e criticato per le sue idee. Fu sottoposto a processo sia per uno dei suoi componimenti religiosi (considerato oltraggioso), sia per le sue poesie di ambito politico, dal momento che si opponeva al regime vigente e parteggiava per il partito comunista clandestino, dal quale fu comunque poi espulso perché non allineato alla mentalità predominante.
La miseria, le delusioni amorose, la preoccupazione per la situazione politica furono fattori che contibuirono al peggioramento della sua nevrosi. Fu sottoposto a cure psichiche, visse per un periodo in sanatorio e, infine, presso la sorella, a Balatonszárszó, dove, nel dicembre 1937, morì ucciso da un treno, verosimilmente suicida (anche se non tutti i critici concordano con questa versione).

 Opere: Il mendicante della bellezza (1922), Non io grido, è la terra che rimbomba (1924), Non ho né padre, né madre (1930), Abbatti il tronco, non piagnucolare (1931), Notte di periferia (1932), Ballo d'orso (1934) e Fa molto male (1936).
 Edizioni in italiano: "A. Jòzsef, Flóra, amore mio, Bulzoni, 1995"; "A. Jòzsef, Poesie. 1922-1937, Mondadori, Oscar poesia del Novecento, 2002, a cura di Edith Bruck"; "A. Jòzsef, Poesie scelte, Lithos, 2005"; "A. Jòzsef, Il mendicante di bellezza, Il Faggio, 2008".

 Altri celebri poeti ungheresi del '900 sono Endre Ady, Mihály Babits, János Pilinszky ed Edith Bruck.

E' inevitabile accennare, per concludere, a ciò che purtroppo sta accadendo in questi giorni in Ungheria, dove le autorità politiche hanno manifestato l'intenzione di rimuovere una statua che ricorda Attila Jòzsef. I poeti, gli intellettuali, una parte consistente della società civile hanno reagito presidiando il luogo e leggendo, nel contempo, le poesie del grande poeta. Resta, tuttavia, la brutta immagine di un'azione autoritaristica, inserita in un quadro più ampio di analogo tenore, sostenuto, dispiace dirlo, da una parte consistente dell'opinione pubblica del paese (solo in parte giustificata nelle sue posizioni dalla probabile influenza negativa di suggestioni mediatiche e demagogiche). Non si tratta, qui, di attaccare posizioni politiche o ideologiche: quello che è inaccettabile per una società in grado di ragionare e prendere decisioni responsabili è la censura dell'informazione, delle opinioni e delle idee, comprese quelle che derivano dai libri. La censura è l'atteggiamento tipico dei prepotenti e di chi vuole raccontare falsità, ma anche dei fanatici e degli ipocriti: di chi, insomma, non può affrontare e confutare un'idea in modo razionale. La speranza è che l'Ungheria possa riacquistare presto una dignità civile più compiuta e cancellare dal suo presente una forma di organizzazione politica tanto inattuale quanto ottusa.

sabato 19 novembre 2011

La donna del Père-Lachaise, di Claude Izner


Anno di pubblicazione: 2007
Titolo originale:  La Disparue du Père-Lachaise

Un giallo storico e un po' sognante.

Siamo nella Parigi del 1890.
Una nobildonna, Odette de Valois, scompare nel cimitero del Père-Lachaise, dove si è recata a far visita alla tomba del marito. La sua giovane domestica, terrorizzata, chiede aiuto a Victor Legris, un libraio trentenne, ex amante della donna scomparsa e appassionato di indagini e misteri da risolvere. Aiutato dal giovane Joseph, il suo commesso, Victor inizia a indagare sull'episodio e sulle morti ad esso collegate, muovendosi nei luoghi più caratteristici della capitale, tra caffè, atelier, strade affollate, ville ed edifici fatiscenti, sulle tracce di un quadro scomparso e di un assassino che sembra essere onnipresente.

Non è solo la trama davvero intrigante che rende questo giallo estremamente interessante e piacevole da leggere: c'è molto di più.
Prima di tutto il fascino e l'atmosfera sognante, carica di suggestioni, della Parigi di fine '800, con i suoi locali, i suoi artisti e i suoi poeti maledetti. Sono gli anni di France, Zola, Mallarmé e Verlaine, gli anni che vedono la nascita del Moulin-Rouge e del Chat Noir, della Tour Eiffel e di un fermento scientifico che porta a grandi scoperte, ma anche gli anni delle rivendicazioni operaie e dei primi slanci di emancipazione femminile.
In questo contesto si collocano personaggi altrettanto unici ed interessanti, tratteggiati con grande maestria: Victor Legris, il libraio-investigatore, Kenji Mori, il suo padre adottivo, giapponese, Tasha, la sua fidanzata pittrice, Joseph, il commesso divoratore di libri e aspirante scrittore, père Moscou, reduce che vive di espedienti e ricordi evanescenti del passato. Sono solo alcuni dei personaggi che animano le pagine di quello che non può essere definito semplicemente un romanzo d'intrattenimento.

La donna del Père-Lachaise è il secondo di una serie di gialli che hanno per protagonista il libraio Victor Legris e le persone che lo circondano, le cui vicende private, per nulla banali, si sviluppano parallelamente ai casi che di volta in volta vengono risolti. Di Claude Izner, pseudonimo di due scrittrici parigine a loro volta libraie, in Italia sono stati pubblicati finora (novembre 2011) sei titoli: Il mistero di rue des Saints-Pères, La donna del Père-Lachaise, Il delitto di Montmartre, L'assassino del Marais, Il rilegatore di Batignolles e Il talismano della Villette. La figura del libraio-investigatore, nel primo romanzo più impulsivo e paranoico che perspicace, viene a delinearsi in modo compiuto solo nel secondo episodio della serie; il suo profilo psicologico, invece, cambia di continuo, insieme alle vicende vissute dal personaggio.
Per quanto riguarda i romanzi affini, sarebbe impossibile citare qui tutti i gialli di Agatha Christie, Georges Simenon, Arthur Conan Doyle e di tutti gli altri maestri di questo genere. Si possono invece menzionare alcuni altri gialli storici, come quelli di Ellis Peters, ambientati nell'Inghilterra medievale, dei quali è protagonista il monaco Cadfael, o quelli di Robert van Gulik, che trovano la loro collocazione storica nella Cina del VII secolo d.C.. oltre a questi, naturalmente, va ricordato Il nome della rosa di Umberto Eco, che non fa parte di un filone e che, d'altronde, non soltanto per questo è un libro unico.
Se avete altri esempi da suggerire, citateli pure nei commenti a questo post, insieme alle vostre impressioni sul libro recensito.

Gridoux

venerdì 11 novembre 2011

Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes



Anno di pubblicazione: 1605 e 1615
Titolo originale: El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha

Il capolavoro di Cervantes, che è stato definito il primo romanzo moderno, è interessante, prima ancora che per ciò che vi si narra, per il modo in cui è stato concepito ed è poi mutato, durante la sua stesura, fino a trasformarsi in qualcosa di molto diverso da quello che era in origine.

Al tempo di Cervantes (1547-1616) in Spagna andavano molto di moda romanzi cavallereschi in cui si narrava di impavidi cavalieri, nobili dame, imprese eroiche e terre dai nomi misteriosi (come la California, in origine semplice nome di fantasia). Questo genere di letteratura era ancora privo, per lo più, degli spunti autoironici e parodici di cui in Italia già l'avevano arricchito autori come Pulci, Boiardo e Ariosto; restava, a giudizio di Cervantes, un genere di basso profilo, insensato, consumato fin troppo da lettori di poco spirito. Da qui nacque in lui l'idea di parodiare l'eccessivo attaccamento dei suoi contemporanei a questo tipo di letture.

 Nel Don Chisciotte, infatti, immagina che un nobile decaduto della Mancia (un hidalgo), a forza di leggere romanzi cavallereschi, perda la testa e si convinca di vivere nel mondo che essi narrano, diventando a sua volta, per spirito d'emulazione, un cavaliere errante votato alla causa della giustizia e della difesa dei deboli. E così, questo aspirante eroe, si sceglie un nome adeguato (Don Chisciotte appunto), una dama da amare, che ribattezza Dulcinea del Toboso, e, dopo un breve periodo di vagabondaggio solitario, uno scudiero, il contadino Sancio Panza, l'unico abbastanza ingenuo e sprovveduto da credere alle sue future imprese e alle sue promesse.
Nel gioco parodico che mette in atto, Cervantes ribalta quella che era l'immagine tipica del cavaliere: Don Chisciotte non è né bello, né giovane, né invincibile; è invece un uomo allampanato, di mezz'età, che, nella sua follia, indossa un elmo rabberciato col cartone, cavalca un "destriero" malandato dal significativo nome di Ronzinante e ama una "dama" tutt'altro che nobile e bella, che oltretutto non incontrerà mai. Completamente immerso nelle sue fantasie, scambia i mulini per giganti, i religiosi per malvagi incantatori, i gendarmi per arroganti villani, gli osti per castellani ospitali (che quindi non dovranno essere pagati) e sfida a duello chiunque non ammetta che la sua Dulcinea è la donna più bella che esista. Con queste premesse, le conseguenze non possono che essere disastrose, e il volenteroso eroe si trova a imitare le situazioni tipiche dei libri che tanto gli piacciono sempre più malconcio e deperito. 
Nel corso della narrazione, però, questo personaggio buffo e ridicolo gradualmente si trasforma. Cervantes, infatti, finisce per affezionarsi a questo nostalgico paladino di valori ormai tramontati, come la lealtà, l'onestà, l'amore, la giustizia: pur nella comicità che suscita, Don Chisciotte assume una sua dignità morale.
L'autore termina la stesura della prima parte dell'opera nel 1605, lasciando in sospeso il vagabondaggio dell'eroe (pur citando la sua morte), cosicché un altro scrittore, che si firma con lo pseudonimo di Avellaneda, ha la possibilità di scrivere la continuazione della storia. Il Don Chisciotte che dipinge, però, è quello sciocco e ridicolo delle origini, non quello maturato nella mente e nell'opera di Cervantes, che per questo motivo, risentito, decide di riprendere in mano le vicende del suo personaggio, trattandolo col rispetto che merita e narrandone infine anche la morte, per evitare che possa essere ulteriormente dileggiato da altri Avellaneda. Don Chisciotte diventa così, nella seconda parte della storia, un uomo acuto e lucido, un saggio, che sragiona e si presta ad essere preso in giro soltanto in materia di cavalleria. Avellaneda, invece, viene fatto oggetto di continui attacchi, tanto piccati quanto mordaci, e lo stesso eroe, ormai reso celebre, anche nella finzione narrativa, dalla pubblicazione della prima parte del romanzo, inveisce contro il ciarlatano che ha parlato di lui in modo tanto falso e ingiurioso.
Cervantes riuscì a concludere e pubblicare la seconda parte della sua opera nel 1615, un anno prima della sua morte, consegnandoci un capolavoro capace di intrattenere e divertire i lettori grazie all'intelligenza e all'ironia che lo pervadono, a una narrazione vivace e piacevole e, soprattutto, alle straordinarie figure di Don Chisciotte e Sancio Panza: il primo coraggioso, virtuoso, leale, il secondo concreto, furbo, fifone e opportunista, ma di indole buona; entrambi in parte ridicoli e in parte da ammirare, animati come sono da un miscuglio inimitabile di balordaggine e qualità umane, tanto che è impossibile non affezionarsi alle loro vicende e alla loro compagnia.

Miguel de Cervantes y Saavedra scrisse anche novelle, come Il dialogo dei cani, opere teatrali, come I bagni di Algeri, e un romanzo pastorale, la Galatea, generi letterari tutti presenti, in forma di digressioni o messe in scena, anche nel suo capolavoro.
Una versione attuale davvero bella del Don Chisciotte (la trovate su Youtube) è quella sintetizzata nell'omonima canzone di Francesco Guccini, una lettura in chiave contemporanea dell'impegno dell'eroe contro l'ingiustizia e in favore di valori ormai messi da parte.
Opere affini al Don Chisciotte sono, allargando la prospettiva anche alla parodia dell'epica in senso stretto, il Margite e la Batracomiomachia dello Pseudo-Omero, il Morgante di Luigi Pulci, l'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto, l'Astolfeida di Pietro Aretino e La secchia rapita di Alessandro Tassoni. Sono solo alcuni titoli tra quelli che hanno da sempre accompagnato in parallelo la fortuna delle opere parodiate.

Gridoux




mercoledì 2 novembre 2011

Fahrenheit 451, di Ray Bradbury


Anno di pubblicazione: 1953
Titolo originale:  Fahrenheit 451

Iniziamo da un libro in cui sono protagonisti i libri, e che non a caso ha dato il titolo a una nota trasmissione radiofonica ad essi dedicata. 

Siamo in un futuro imprecisato, a Los Angeles.
Guy Montag è un pompiere, un brav'uomo, contento di svolgere il suo mestiere: appiccare il fuoco per distruggere i libri ancora esistenti, dal momento che la legge vieta di conservarli e leggerli. Lo fa ridere l'assurda leggenda secondo cui, un tempo, quando le case non erano ancora ignifughe, i vigili del fuoco avrebbero avuto il compito di spegnere gli incendi anziché quello di farli scaturire.
Il mondo in cui vive è perfettamente organizzato, controllato, ultratecnologico. Non mancano gli intrattenimenti, i passatempi, gli spettacoli che permettono alle persone di allontanare la noia e di trascinare avanti un'esistenza inconsapevole e superficiale. Le TV occupano, nelle case più attrezzate, quattro pareti, consentendo agli spettatori di interagire e sentirsi partecipi di un coinvolgente mondo virtuale, mentre, per contro, sembra non esistere una reale vita sociale, neppure all'interno della cerchia famigliare. Dei macchinari medici molto evoluti, infine, permettono di sottrarre alla morte i non pochi individui che, "incomprensibilmente", tentano il suicidio.
E' un mondo ordinato e perfettamente efficiente nel quale, però, sembra non esserci spazio per il pensiero, la curiosità, la riflessione interiore (non per niente i libri vengono distrutti). Anche Montag, come quasi tutti gli altri, vive estraneo e indifferente a ciò che lo circonda e, in fondo, non è felice. Le cose, però, sono destinate a cambiare e il protagonista, anche grazie ai suoi "strani" vicini di casa, riesce pian piano a prendere coscienza di una dimensione umana più profonda, mentre il mondo che di essa l'aveva privato va irreparabilmente in frantumi. 

La narrazione di Bradbury riesce ad affascinare e coinvolgere dipingendo un mondo che, per molti aspetti, ha i tratti di un'allucinazione grottesca, ma che, insieme, ha un profondo legame con la realtà e i comportamenti tipici degli esseri umani, prima di tutto in senso sociale e politico.
A dominare questo mondo non è la dittatura oppressiva e onnipresente del 1984 di Orwell, in cui l'occhio del Grande Fratello vigila ovunque e punisce senza scampo, ma è, al contrario, una forma di controllo molto più leggera e impalpabile, anche se altrettanto efficacie. In questo caso, infatti, l'uomo non si sente controllato, può condurre una vita tranquilla, respira, ma, alienato e inebetito dalla televisione di regime, e in assenza di altri spunti culturali, viene portato all'isolamento sociale e privato di fatto della sua libertà mentale e della sua capacità di elaborare idee. In questo senso, quello di Fahrenheit 451, è un futuro niente affatto remoto e descrive, anzi, l'atteggiamento sempre esistito di chi cerca di controllare il pensiero altrui prima di tutto attraverso la censura dei libri (si possono citare svariate dittature, più e meno recenti, l'Inquisizione, ecc., ecc.). Per questo motivo il mondo descritto da Bradbury fa comprendere l'importanza di ciò che vi viene negato, ed è davvero assurdo, quando si può, privarsi da sé della possibilità di leggere, ossia di un'attività che, come l'arte e la musica, aiuta a vivere in modo più completo, consapevole e profondo.

Di Ray Bradbury, scrittore statunitense nato a Waukegan nel 1920, ricordiamo anche Cronache marziane, La morte è un affare solitario, L'uomo illustrato e (per ragazzi) L'albero di Halloween.
Da Fahrenheit 451 è stato tratto, nel 1966, l'omonimo film di François Truffaut.
Romanzi dello stesso genere (fantascientifico-distopico) sono 1984, di George Orwell, e Il mondo nuovo, di Aldous Huxley.

Gridoux